Anno 2001
sentenza n. 319/01
emessa il 01/10/2001
depositata il 12/10/2001
N° R.G.T. 1033/00
N° R.G.N.R. 4539/99
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Sanremo, in composizione monocratica
in persona del dr. Massimiliano RAINIERI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento penale a carico di:
…, nato a … (…) il …/…/…, elettivamente domiciliato in
Sanremo presso lo studio dell'avv. Paolo Burlo del foro di Sanremo, LIBERO
– CONTUMACE
IMPUTATO
a) del reato di cui agli artt. 81 cpv 648 c.p. per avere
ricevuto al fine di trarne profitto, da persona rimasta sconosciuta, gli
oggetti con marchio contraffatto, indicati al capo b);
b) artt. 81 cpv, 474 c.p. per avere posto in vendita
o comunque detenuto per vendere oggetti con marchio di fabbrica contraffatto:
un borsone L. VUITTON.
In Sanremo il 18/08/1998.
Con la recidiva specifica.
MOTIVAZIONE
L'accusa non può ritenersi fondata.
La condotta, in sintesi, è rappresentata dalla
detenzione di un borsone Luis Vuitton, ovviamente contraffatto, da parte
del cittadino senegalese …: in essa il Pm ha ravvisato il concorso materiale
delle fattispecie ex artt 474 e 648 cp.
Di recente (Cass. SSUU sent. n. 23427 del 7.6.2001, ud.
del 9.5.2001) le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affrontato proprio
il quesito concernente "la possibilità o meno di concorso tra il
reato di ricettazione e quello di commercio di prodotti con segni falsi".
E lo hanno risolto in senso positivo. Chiarendo, tra l'altro, che "l'apposizione
di un segno contraffatto su un bene, fattispecie delittuosa ai sensi dell'art
473 cp, funge da fonte rispetto alla cosa così realizzata", che
"i destinatari ricevono la cosa con un attributo che essa non potrebbe
avere", e che, dunque, "l'apprensione di entità con segni o marchi
falsificati è, in astratto, riconducibile alla ricettazione".
Acquisito l'insegnamento, tuttavia, occorre accertare,
in concreto, se si siano integrati gli estremi oggettivi e soggettivi dei
reati in esame.
E la risposta negativa si impone per una pluralità
di ragioni.
Tra il caso esaminato dalle Sezioni Unite e quello di
specie, in fatto, c'è una differenza di sicuro rilievo. Là
si trattava di cinture da jeans con marchio contraffatto, oggetti casuals
di semplice realizzazione e di esiguo valore, quindi facilmente confondibili
con gli originali che, comunque, sono destinati ad un consumo di massa.
Qui, all'opposto, si tratta di imitazioni, vili e dozzinali, di borse elegantissime
e famose, ovvero di beni di lusso cui è coessenziale la destinazione
ad una clientela selezionata.
E le massime d'esperienza, con riguardo a beni di lusso
come quello in esame, ci consegnano una realtà in cui, accanto al
mercato dell'originale, si sviluppa quello delle sue imitazioni, più
o meno volgari.
Ma sono mercati separati e privi di interferenze.
Perché nettamente distinti. Quanto ai prezzi, irrimediabilmente
lontani: il falso si acquista con qualche decina di migliaia di lire mentre
l'originale richiede esborsi di milioni. Quanto all'intrinseco regio dei
materiali utilizzati, essendo impensabile che un oggetto infinitamente
più costoso possa avere caratteri qualitativi comparabili con quello
falso. Quanto al venditore, che nel primo mercato è quasi
sempre un extracomunitario il quale offre e vende la sua mercanzia per
strada mentre nell'altro è un esercizio commerciale, di solito di
altrettanto prestigio delle griffes che distribuisce. E quanto al
compratore, giacchè chi acquista il bene di lusso ricerca un tratto
di distinzione e rifugge dalle imitazioni che appagano invece chi le insegue
per simulare un più elevato status consumistico, ma non vuole, o
non può, pagare quel che si pretende per il prodotto autentico.
Senza trascurare il fenomeno, anch’esso notorio, dei collezionisti di falsi.
Quindi non si lede l'affidamento dei cittadini sugli
indicatori di provenienza. Il compratore è consapevole di acquistare
un falso, anzi è proprio quello che cerca: è un comportamento
interessante sotto il profilo sociologico e psicologico ma del quale, in
questa sede, non resta che prendere atto. Il produttore, dal canto
suo, non può lamentare un danno diretto da sottrazione o sviamento
di clientela: ciò avverrebbe soltanto se il falso, oltre ad essere
un'imitazione quasi perfetta, o comunque confondibile, fosse venduto come
autentico in un comune esercizio commerciale, al prezzo di listino, o magari
ad un prezzo leggermente inferiore per catturare qualche cliente in più.
Né si scalfisce l'immagine commerciale del prodotto: anzi, poiché
si imitano soltanto cose di pregio, l'esemplare forse si esalta proprio
nel momento in cui riesce a suscitare il falso.
Quello descritto è il dato fattuale che va raffrontato
con il dato normativo di riferimento.
Il principio di offensività, per opinione autorevole
e condivisibile, ha rango costituzionale. Anzitutto, in quanto il
diritto supremo della libertà personale, ex art 13 Cost., non è
intoccabile dalla sanzione penale detentiva - o anche pecuniaria, poichè
convertibile - ove non si leda alcun bene giuridico. Ed, inoltre,
perché, se si incriminassero fatti di mera disubbidienza, la pena
diverrebbe misura esclusivamente preventiva, che colpisce la pericolosità
dell'agente ed usurpa, quindi, le funzioni proprie della misura di sicurezza,
in contrasto con gli artt. 25 e 27 Cost. che le distinguono, assegnando
ad esse diverse finalità. La necessaria offensività,
ribadita a livello ordinario dall’art. 49 cp, dunque, da un lato, serve
ad interpretare in chiave d'offesa i reati in cui questa è elemento
implicito o che, comunque, possono così reinterpretarsi senza violare
il principio di legalità; dall’altro, contribuisce a costruire una
nozione di reato come illecito tipico, alla cui tipicità, insieme
agli altri requisiti strutturali, ossia condotta, evento materiale e rapporto
causale, appartiene anche l'offesa al bene protetto.
In sede giurisprudenziale, in applicazione del principio
offensività, è ormai divenuta incontroversa l'affermazione
della non punibilità del falso innocuo, ossia inidoneo a vulnerare
l'interesse tutelato, o grossolano, cioè ictu oculi riconoscibile.
E, con particolare riferimento alla contraffazione, si
è chiarito: "In tema di commercio di prodotti aventi marchi o segni
distintivi contraffatti o alterati, art. 474 cp, il reato e' configurabile,
qualora la falsificazione, anche imperfetta e parziale, sia idonea a trarre
in inganno i terzi, ingenerando errore circa l'origine e la provenienza
del prodotto e, quindi, la confusione tra contrassegno e prodotto originali,
e quelli non autentici. La contraffazione grossolana non punibile è
soltanto quella che è riconoscibile ictu oculi, senza necessità
di particolari indagini, e che, si concreta in una imitazione così
ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza, da non poter ingannare
nessuno (Cass. Sez. V sent. n. 3336 del 16.3.2000, ud. 26.1.2000). E ancora:
"Un marchio contraffatto può trarre in inganno un compratore, così
da integrare, in caso di vendita della merce, il reato ex art. 474 cp solo
se la provenienza prestigiosa del prodotto costituisce l'unico elemento
qualificatore o comunque quello prevalente per determinare nell'acquirente
di media esperienza la volontà di acquistare il prodotto stesso.
Qualora viceversa altri elementi del prodotto, quali l'evidente scarsità
qualitativa del medesimo o il suo prezzo eccessivamente basso rispetto
al prezzo comune di mercato, siano rivelatori agli occhi di un acquirente
di media esperienza del fatto che il prodotto non può provenire
dalla ditta di cui reca il marchio, la contraffazione di quest'ultimo cessa
di rappresentare un fattore sviante della libera determinazione del compratore"
(cfr. Cass. sez. V sent. n. 2119 del 23.2.2000, ud. del 17.6.1999).
Si tratta di letture chiare, coerenti con il principio
di offensività e riferite a beni giuridici non vaghi ma ben definiti.
Anzi, sembrano inficiate da contraddizione insanabile le massime di segno
contrario in cui, ricondotta la fattispecie incriminatrice ai reati di
pericolo, dapprima si afferma che “è volta a tutelare, in via principale
e diretta, non la libera determinazione dell'acquirente ma la pubblica
fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi,
che individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono
la circolazione", e poi si conclude - come se libera determinazione e affidamento
dei cittadini non fossero indissolubilmente connesse - che "non può
parlarsi ... di reato impossibile per il solo fatto che l'asserita grossolanità
della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere
la possibilità che gli acquirenti vengano tratti in inganno" (Cass.
Sez. II sent. n. 13031 del 14.12.2000, ud. 11.12.2000).
La questione, comunque, nel caso di specie, va oltre
la problematico della grossolanità ed il reato ex art. 474 cp deve
escludersi per ragioni ancor più radicali.
La tutela penale dei marchi e dei segni distintivi è
finalizzata alla garanzia dell'interesse preminente della fede pubblica,
più che a quello privato del soggetto che ne è titolare (Cass.
sez. II sent. n. 6418 del 2.6.1998, ud. 26.3.1998). In altri termini, marchi
e segni ricevono protezione indiretta, in quanto indicatori di provenienza
aziendale, mentre il rilievo primario è riconosciuto all'interesse
sociale di impedire che si abusi della pubblica fede. E ciò risulta
evidente anche dalla collocazione della norma nel Titolo VII del Libro
Secondo del Codice Penale, ossia tra i "Delitti contro la fede pubblica”.
Ma qui, per i fatti concludenti evidenziati supra, si
è in presenza di un falso esplicito e palese a tutti, in primis
all'acquirente. La lesione della pubblica fede è quindi esclusa
in radice. E con essa l'integrazione della fattispecie ex art. 474
cp.
La conclusione non muterebbe considerando l'interesse
del produttore non mero oggetto di tutela indiretta bensì collocato
sullo stesso piano della fede pubblica, ovvero se si configurasse come
reato plurioffensivo. Ad integrare un reato plurioffensivo, infatti, non
basta la lesione di uno qualsiasi degli interessi protetti; al contrario,
tutti devono essere necessariamente lesi. Così, richiamando esempi
classici, sarebbe inconcepibile una rapina senza una lesione, almeno potenziale,
sia della libertà personale che del patrimonio; o una calunnia che
leda la persona falsamente incolpata ma non la regolare amministrazione
della giustizia, o viceversa.
Per incidens alcuni rilievi conclusivi.
Anzitutto, ove si ritenesse criminoso il falso in esame
nessuna acrobazia giuridica, per quanto ardita, consentirebbe di evitare
quel che la prassi giudiziaria costantemente nega, ossia l'incriminazione
di chi lo acquista consapevolmente.
Inoltre, nella specie, si stenta a scorgere in che cosa
si concreti l’offesa al produttore. Esclusi, per le ragioni supra evidenziate,
il danno diretto da sottrazione o sviamento di clientela e quello all’immagine,
potrebbe forse ipotizzarsi che col tempo la diffusione del falso volgarizzi
il prodotto autentico e lo privi del suo connotato di distinzione.
Si tratterebbe, tuttavia, di un danno mediato, tutt'altro che scontato
e occorrerebbe provare, quanto meno, il concreto pericolo che si verifichi.
infine, ove un danno siffatto fosse accertato, poichè l'ostacolo
della mancata lesione della fede pubblica non è in alcun modo superabile,
si resterebbe comunque al di fuori della previsione ex art. 474 cp.
Si integrerebbe soltanto un illecito civile. E - in mancanza di discipline
incriminatrici ad hoc come quelle dettate per dischi, audio e video cassette
o software - attribuirgli un presidio penale, pensato e dettato a protezione
di altri interessi, si risolverebbe in una violazione del principio di
tassatività.
Il discorso svolto sull'art 474 c.p., data l'identità
dell'interesse tutelato, non può che all’art. 473 c.p. La condotta
relativa a tale norma incriminatrice, in effetti, poiché non vi
sono elementi concreti ed accertati che orientino altrimenti, non può
che ritenersi proiettata verso lo stesso mercato del falso di cui si è
discorso a proposito dell'art 474 c.p. E non sussistendo il reato presupposto,
ovviamente, vien meno anche la ricettazione.
L’epilogo, pertanto, è il proscioglimento dell’imputato
da entrambe le imputazioni.
PTM
Visto l’art. 129 cpp, assolve … dai reati a lui ascritti
perché il fatto non sussiste.
San Remo, 1 ottobre 2001.
Il Giudice
Massimiliano Rainieri
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